Ecco arrivare la tanto agognata uscita della quinta versione del Manuale statistico dei disturbi mentali la cui prima edizione risale al 1952. Ad esso e alla problematica più generale della nozione di diagnosi in psichiatria è dedicato l’ ultimo fascicolo, curato da Mario Colucci, della rivista aut aut diretta da Pier Aldo Rovatti che da tempo fa riferimento all’ opera e alla pratica di Franco Basaglia.
È stato Franco Basaglia a sottoporre a una critica severa lo strumento della diagnosi mostrando come in esso non si manifestasse tanto un’esigenza terapeutica, ma l’esercizio abusivo di un potere che classificando i folli e separandoli dai cosiddetti normali, perseguiva l’ obiettivo di escludere dalla vita della città tutto ciò che rischiava di comprometterne l’ equilibrio. E nella misura in cui la diagnosi demarcava il confine tra il normale e l’anormale, da strumento necessario della cura diveniva fatalmente ciò che tendeva a generare lo stigma della malattia. A questo paradosso della diagnosi nemmeno il DSM V – animato come i precedenti manuali dalla pretesa di fornire una descrizione asettica dei disturbi mentali come fatti in sé, realtà che prescinde dalla sua interpretazione – può sfuggire.
Ma ci sono delle differenze. Nelle analisi di Basaglia la diagnosi rispondeva a un’esigenza di ordine disciplinare in una società che coltivava paranoicamente il miraggio di una netta distinzione tra il normale e il patologico. La difesa della normalità avveniva, di conseguenza, aumentando la soglia che separa il normale dal morboso. Il dominio del DSM non risponde più a questa logica perché punta a una patologizzazione del normale, cioè a un’ estensione invasiva del disturbo mentale che connota come “disturbi” comportamenti che si ritenevano sino ad ora normali. All’ uso violento e stigmatizzante della diagnosi propria della psichiatria manicomiale, si sostituisce una medicalizzazione diffusa della vita.
I dati sono impressionanti: tra il 1987 e il 2007 nella popolazione degli Stati Uniti la percentuale dei diagnosticati afflitti da problemi psichiatrici è passata da uno ogni 184 ad uno ogni 76. Un esempio di questa patologizzazione della vita è la depressione. Sino al DSM IV questa diagnosi non poteva essere applicata se un soggetto aveva vissuto esperienze di perdita – per esempio un lutto – che potevano innescare stati di ritiro e di tristezza. Ora non è più così e la prescrizione dell’ antidepressivo non si negherà a nessuno. In questo modo le frontiere del mercato degli psicofarmaci e delle polizze assicurative si dilateranno ulteriormente mostrando che ciò che deve essere commercializzato non è più, come si esprimeva Watters, «la molecola, ma la malattia».
Fonte: La Repubblica, 8 maggio 2013