Il punto sul virus al Festival della Scienza, dalla sua scoperta ai giorni nostri.
Oggi chi si cura ha molte probabilità di sopravvivere. Fondamentali il preservativo e frequenti analisi del sangue.
Il tempo della medicina, il tempo della ricerca. Il tempo della vita, o meglio, della qualità della vita. Trent’anni fa, quando Luc Montagnier e Robert Gallo identificarono il virus Hiv, la percentuale di persone che non sopravvivevano sfiorava il 100%. Oggi, chi scopre per tempo di aver contratto Hiv e si sottopone regolarmente alle terapie, ha probabilità minime non solo di ammalarsi di Aids, ma anche di trasmettere il virus ad altre persone, per esempio in gravidanza o tramite un rapporto sessuale.
Un dato che non può e non deve far calare l’attenzione su un virus che ancora oggi colpisce (e uccide) moltissime persone in tutto il mondo: tra gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio sottoscritti dalle Nazioni Unite nel 2000, vi era arrestare la propagazione dell’Hiv/Aids entro il 2015 e cominciare a invertirne l’attuale tendenza. Mancano pochi mesi al 2015. A che punto siamo arrivati? Quali le aspettative di vita, oggi, di chi è sieropositivo? Quali sono i tempi e costi della ricerca? Sono queste le domande che ci si è posti alla conferenza Hiv/Aids: dalla scoperta del virus ai giorni nostri, mercoledì 29 ottobre a Palazzo Ducale nell’ambito del Festival della Scienza di Genova, evento parallelo alla mostra Out of sight .
I relatori sono Giorgio Colombo, docente di Organizzazione Aziendale all’Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Farmacia; Paolo Gorgoni di Plus Onlus, associazione di persone lgbt sieropositive con sede a Bologna; Claudio Viscoli, Direttore della Clinica Malattie Infettive dell’ospedale San Martino di Genova.
Partiamo con il chiarire un aspetto: essere Hiv positivo ed essere malato di Aids sono due cose diverse. Hiv è l’acronimo di Human Immunodeficiency Virus, ossia un virus che gradualmente riduce il numero di linfociti Cd4, i globuli bianchi che determinano la risposta del sistema immunitario alle infezioni. Aids, ossia Acquired Immune Deficiency Syndrome, è uno stadio clinico della sieropositività, che si manifesta quando il sistema immunitario è compromesso al punto da far contrarre un insieme di patologie più o meno gravi (che nel linguaggio medico si chiamano infezioni opportunistiche).
A che punto siamo, ci si chiedeva. Claudio Viscoli presenta, all’inizio del suo intervento, alcuni dati numerici. 35 milioni, le persone sieropositive nel mondo; 24,7 milioni, le persone sieropositive nella sola Africa sub-sahariana; 7 milioni, le persone che a oggi non hanno accesso ad alcun trattamento sanitario; 2,1 milioni, le persone che hanno contratto il virus nel corso del 2013; 1,5 milioni, le persone morte nel 2013; 200.000, i bambini e bambine morti nel 2013. Infine 100/120, il numero medio di nuove diagnosi in Liguria ogni anno.
I primi investimenti per la ricerca e l’immissione sul mercato dei farmaci, spiega Viscoli, sono arrivati a metà degli anni Novanta. Prima di tale data «morivano tutti e in tempi molto rapidi dal momento della diagnosi, salvo rarissimi casi». Quando è stato girato Philadelphia, il primo film in cui è stato esplicitamente affrontato il tema dell’Aids, non era pensabile che un sieropositivo potesse vivere una cosiddetta vita normale. Nei Paesi occidentali le terapie antiretrovirali sono oggi diffuse e con un livello sempre più alto di efficacia, anche se persistono casi isolati di persone che – per varie ragioni – scelgono di non sottoporsi ad alcuna cura. In molte zone dell’Africa, invece, proprio dove il tasso di contagio e mortalità è più elevato, l’accesso alle cure è fortemente limitato: non solo per motivi economici, ma anche perché in alcune comunità è poco o per nulla presente la cultura della terapia farmacologica a lungo termine, il «dovrai prendere tot pastiglie al giorno per il resto della tua vita».
L’intervento di Giorgio Colombo, economista, si pone su una prospettiva complementare: le case farmaceutiche sono aziende, e come ogni azienda operano in un regime di costi, ricavi e profitti. Il sistema sanitario italiano costa circa 112 miliardi l’anno, cifra strettamente condizionata dalla crescita economica complessiva. Se l’Italia non cresce, tale cifra non può essere aumentata, e deve essere valutata la sostenibilità di ciascun indice di spesa, del modo in cui le risorse vengono distribuite. In Italia la terapia è somministrata gratuitamente («la passa la mutua»), ma i costi di produzione e distribuzione dei farmaci sono molto alti: un paziente affetto da Hiv costa in media 12.000 euro all’anno. Un farmaco messo di recente sul mercato per curare l’epatite C, che negli ultimi tempi sta riscontrando un tasso molto alto di contagi, costa 37.000 euro per singolo ciclo terapeutico, dunque circa 3 volte la terapia Hiv.
Ogni decisione economica, incluso l’acquisto di nuovi farmaci, viene presa sulla base di un’analisi costo/beneficio: il suo valore dal punto di vista sanitario (quanto beneficio offre alla collettività?) va ponderato anche in relazione al suo valore economico (quanto pesa economicamente alla collettività?). Costo per anno di vita salvato è l’indicatore in base a cui si stabilisce la sostenibilità economica di un farmaco, ma gli antiretrovirali sono tra quelli dove il rapporto costo/efficacia è più basso. Ovvero, per riprendere l’esempio di cui sopra: di epatite C si può guarire, ovvero i costi della cura per ciascun paziente possono essere circoscritti nel tempo, mentre le terapie antiretrovirali aumentano l’aspettativa di vita del paziente (prolungando dunque la spesa annua per curarlo), ma non esiste a oggi possibilità di guarigione.
Quali sono i costi e benefici umani di una terapia correttamente somministrata? Risponde Paolo Gorgoni, che racconta la sua esperienza personale di sieropositivo: «Avere l’Hiv nel 2014 non è una condanna a morte, e a cinque anni dalla diagnosi posso dire di avere una vita normale e un’aspettativa di vita come quella di chiunque altro, anche forse superiore – dice con ironia – visti i numerosi e frequenti controlli medici cui mi sottopongo».
La parte più difficile, spiega Gorgoni, è parlare alle altre persone del proprio stato sierologico, affrontare la paura del rifiuto e della solitudine, nonché dello stigma sociale cui ancora oggi le persone sieropositive sono soggette. Al tempo stesso, la vita affettiva e sessuale può essere oggi vissuta con tranquillità, pur naturalmente con l’uso del preservativo, un termine che purtroppo suscita ancora imbarazzo nei media e in chi dovrebbe occuparsi di sensibilizzazione alla prevenzione. Il Msm (Maschi che fanno Sesso con Maschi) è la prima fonte di contagio, ma la percentuale di uomini e donne eterosessuali che contraggono il virus tramite un rapporto sessuale è ancora molto alta.
Gorgoni illustra il suo lavoro in Plus Onlus, spiegando che tutto ciò che è stato fatto finora in termini di prevenzione è stato espresso in termini generali, senza tenere conto dei linguaggi e principi comportamentali specifici delle diverse comunità: uno dei progetti di Plus è aprire un check point – come già esiste in altri Paesi europei – dove si può fare il test Hiv e avere un servizio di counseling, in affiancamento a quello fornito da medici e specialisti, in cui una persona omosessuale che si scopre sieropositiva trova sostegno da parte di un’altra persona omosessuale e sieropositiva, con cui avverte una maggiore empatia per il fatto di appartenere allo stesso gruppo sociale.
L’importanza dell’uso del preservativo in ogni tipo di rapporto sessuale è sottolineata da tutti i relatori, così come l’importanza di fare regolarmente le analisi del sangue (il test Hiv è anonimo e gratuito), perché più tempestive sono la diagnosi e l’avvio della terapia, maggiori saranno le probabilità di efficacia. Ancora oggi, sottolinea Viscoli, il 30% delle diagnosi in Italia avviene quando il virus è stato contratto da tempo e la persona presenta già i primi sintomi, mentre in altri Paesi la percentuale è più bassa. Gorgoni parla di una «responsabilità individuale e sociale del preservativo»: se un fumatore sceglie consapevolmente di fumare pur sapendo che incorre in rischi per la propria salute, la responsabilità è soprattutto individuale, pur tenendo conto dei rischi del fumo passivo per altre persone; se un sieropositivo sceglie di avere rapporti non protetti, o di non comunicare al/alla partner il suo stato sierologico, oltre a mettere a rischio la salute di un’altra persona contribuisce indirettamente ad aumentare il rischio epidemiologico.
Da qui la domanda, provocatoria ma non troppo, di una persona dal pubblico: se il preservativo, come sappiamo, è a oggi lo strumento più efficace di prevenzione, nonché il più economico (e spesso distribuito gratis, per esempio in alcune discoteche), «perché non ci sono molte più macchinette per la distribuzione dei preservativi, anche e soprattutto gratuite, a ogni angolo di strada?».